Il capitano chiamò allora dall’ Albania numerose famiglie e per favorire la ripopolazione del nuovo territorio fu concesso in privilegio ai futuri abitanti non regnicoli l’ esenzione, per un decennio, dai tributi dovuti alla Regia Corte. Ebbe così inizio il processo insediativo di famiglie di etnia albanese che radicarono in questa nuova terra i costumi, la religione greco-ortodossa e la lingua della terra d’ origine: elementi culturali e spirituali caratterizzanti di questa ed altre etnie albanesi che tra la fine del XV e gli inizi del XVI sec si insediarono nel Regno di Napoli e ad oriente di Taranto dove sorgerà la cosiddetta “ Albania Sallentina”.
I nuovi abitanti cominciarono a coltivare la terra rimasta incolta e ricostruirono il casale con abitazioni in pietra ( sono ancora visibili alcune abitazioni risalenti a quell’ età nel centro storico del paese con i loro comignoli di fattura albanese) ed il Capuzzimati fece edificare, lungo la linea di congiungimento dei due feudi, Rizzi e San Marzano, il Palazzo Feudale ( la linea d’ intersezione divide esattamente le due ante del portone dell’ ingresso del palazzo) ) mentre più sotto si edificò la chiesa more graeco intitolata a Santa Venere. . Nel 1630 si chiude la successione feudale dei Capuzzimati e nella successione feudale degli anni a seguire ritroviamo i Lopez, i Capece, i Castriota ed i Bonelli fino al 1806 anno in cui, con la legge sull’ eversione della feudalità, la gestione politico-amministrativa del feudo passò alla comunità locale.Nel 1929 il feudo fu venduto dal marchese Bonelli al commendatore Angelo Casalini, della Terra di Francavilla, ed ancor oggi i suoi discendenti lo abitano.
La conservazione della lingua arbëreshe è ciò che differenzia ancor oggi all’ interno della cultura omologata contemporanea , la comunità sanmarzanese da tutte le altre della provincia ionica. L’ estraneità ai movimenti culturali ed economici tarantini ha permesso la conservazione dell’ identità etnica con tutte le sue espressioni rituali e folkloristiche. A distanza di 480 anni dall’ insediamento la lingua d’ origine è sopravvissuta ed è parlata ancora dagli anziani e meno giovani del paese, ma per oltre 4 secoli è stata la unica forma di comunicazione verbale. La variante linguistica d’ origine è il dialetto tosco, parlato nella Albania meridionale Purtroppo attualmente si assiste ad una perdita lenta del patrimonio linguistico arbëreshe: solo la metà della popolazione lo usa ma limitatamente al parlato domestico.
Erano due gli avvenimenti più importanti della vita del paese che rimandavano alla terra d’ origine: il matrimonio e la morte. Di tali riti religiosi però a San Marzano non è rimasta memoria : nel 1622 il vescovo Antonio D’ Aquino con la soppressione ufficiale del rito greco-ortodosso avviò il processo, già in itinere, di latinizzazione della religione, dando un’ accelerata alla scomparsa di un mondo ricco di usi, costumi e suggestioni balcaniche. Sono belle le descrizioni dei matrimoni di rito greco ortodosso : il papas accoglieva i due sposi sulla soglia della Chiesa. Li accompagnava all’ interno, poneva sul loro capo due corone riccamente adorne di nastri colorati, porgeva loro un unico pezzo di pane da cui entrambi mangiavano ed il vino. Faceva loro compiere tre volte il giro dell’ altare ed infine lanciava nel fonte battesimale bicchieri da cui avevano bevuto : segno di buon augurio era la frattura dei bicchieri. Gli sposi venivano lasciati indisturbati nella loro nuova casa per otto giorni e l’ ottavo giorno uscivano per fare visita ai parenti, la sposa indossando l’ abito appunto detto “ dell’ ottavo giorno”. L’ altro rito, ormai perduto, ma tutto orientale, era quello funebre : il feretro era circondato da donne che indossavano per tre giorni l’ abito di gala ( solo il quarto giorno indossavano l’ abito di lutto) cantavano , con le chiome sciolte, nenie funebri e sistemavano sulla bara dolci e cibo per i visitatori: Il coniuge vivente , in segno di vedovanza imbruniva le due corone poste sulla testiera del letto il giorno del matrimonio.
Una festa importante era l’ ” Arcipurcium “ , un banchetto che durava 3 giorni e a cui partecipavano le donne e gli uomini sposati di una stessa tribù. Le donne indossavano l’ abito della festa ( o dell’ ottavo giorno) ed intonavano i canti albanesi ( valie) e ballavano fino a notte tarda le vallje, danze coreografiche albanesi. I temi delle vallje , dei canti e delle serenate erano le gesta eroiche dell’eroe Giorgio Skanderberg e dei suoi valorosi , l’ amore e la nostalgia per la patria perduta ,la diaspora in seguito all’ invasione turca e l’ amore per le proprie donne di cui gli albanesi vantavano le virtù e di cui erano oltremodo gelosi. Bellissimi erano gli ori ( soprattutto in filigrana, incisi e/ o smaltati) e gli abiti albanesi ( quelli femminili : quotidiano, di gala, della festa, del matrimonio, dell’ ottavo giorno e di lutto) diversi per fattura da quelli ionici.
Gli albanesi erano gente molto superstiziosa e questa natura è rimasta viva fino a qualche decennio fa attraverso la credenza nel malocchio, nelle “ fatture e nei “ lauri”… La trasmissione della tradizione popolare arbëreshe è stata esclusivamente nella forma orale e mancando fonti scritte il rischio di perdita di gran parte del patrimonio orale è stato elevato. La minoranza Arbëreshe è stata riconosciuta dallo Stato Italiano in base alla legge 482/99 ma non basta una legge per tutelare e valorizzare un patrimonio culturale che è insieme storia, identità, religione tradizione e folklore, occorre la volontà e la serietà di ogni individuo singolarmente coinvolto, sia esso studioso, cultore o semplice cittadino. Conoscere la lingua di una popolazione significa conoscerne la storia, l’evoluzione, la cultura la religione e le tradizioni. Per questo è fondamentale considerarla non solo come memoria del passato ma come raccordo tra quel passato ed il futuro ed utilizzarla come sviluppo culturale ed economico.